Il cibo non ha solamente lo scopo di sfamare e mantenere in salute il proprio fisico. Spesso è un mediatore sociale con il potere di riportare armonia e dialogo. Il suo trucco è nella condivisione. I compagni ad esempio sono etimologicamente coloro che dividono lo stesso pane, mentre l’espressione medievale “vivere a uno pane e a uno vino” che in alcuni ambiti rurali si sente ancora pronunciare, era un modo per dire che si viveva insieme, nella stessa famiglia. Che la convivialità elevasse l’essere umano rispetto all’animale si percepiva già dalle parole di Epicuro: “Dobbiamo trovare qualcuno con cui mangiare e bere prima di cercare qualcosa da mangiare e da bere, perché mangiare da soli significa fare la vita di un leone o di un lupo”. La tavola apparecchiata poi è considerata dagli antropologi uno spazio sociale intorno al quale condividere non solo alimenti indispensabili per la sopravvivenza, ma anche opinioni, sensazioni legate al gusto, racconti di eventi quotidiani. Il desco è un luogo di confronto e crescita emotiva, dove si consolidano legami, si scambiano pareri, si trovano soluzioni a problematiche familiari. È specialmente quel posto sacro in cui si tramandano e si tesaurizzano le tradizioni culinarie legate a un determinato territorio. In effetti, come fa notare lo studioso Massimo Montanari, il concetto di prodotto a denominazione di origine era già insito nel IV secolo a. C. È divenuto motivo di orgoglio e identità regionale fra il XVIII e il XIX secolo e il “mangiare geografico” è paradossalmente tornato alla ribalta subito dopo la diffusione di un modello di consumo globale. 

 

Cucina tradizionale picena 

Le zone picene colpite dagli eventi tellurici del 2016-2017 sono principalmente quelle dell’entroterra, dove verdure e legumi per lungo tempo hanno svolto un ruolo cardine. La carne, infatti, di rado arrivava sulla tavola e non a caso fra i popolani era noto il detto: mittë salë e uògghië e ttutt’erba cuògghië (metti sale e olio ed è buona ogni verdura). L’alimentazione contadina si basava sul ciclo naturale della terra che di conseguenza scandiva anche le fasi lavorative. 

Nella quotidianità si tendeva a cucinare ciò che veniva raccolto nei campi e un pasto ricorrente era la cosiddetta “acqua cotta”, costituita da verdure di stagione, fagioli e patate. A Ripatransone e nel territorio circostante era diffuso lu ciavarre, una minestra a base di legumi e cereali già nota ai tempi dei Piceni che anche oggi è possibile degustare in trattorie ed agriturismi locali. Altro elemento immancabile nelle cucine dell’entroterra era la farina di granoturco con la quale si preparava la polenta, un alimento caldo, rimpinzante, perfetto per affrontare le insidie dell’inverno. Si diceva che li marchescià fossero dei grandi magna pelenda poiché questo era un piatto molto comune, specialmente nelle case più modeste. Non a caso in uno stornello si cantava: “Lu cuntadì fatica e può s’allenda,/e pe’ magnà gghie tocca la pelenda”. Con la medesima farina si faceva anche il pane poiché quello bianco era prerogativa delle classi sociali più abbienti. Altro alimento che appartiene alla tradizione gastronomica rurale è senz’altro il cacio pecorino. Oggi, oltre al formaggio delle zone montane, è particolarmente apprezzato quello prodotto a Castorano, Force, Offida, Palmiano e lungo il territorio dell’Ascenziò, ossia del monte Ascensione. A tal proposito è stato tramandato nel corso degli anni un aneddoto molto interessante che riguardava le vergare, le quali affiancavano i mariti nella custodia delle greggi appartenenti a più padroni. Il procedimento per la realizzazione del cacio era piuttosto articolato e la donna accompagnava ogni fase con preghiere o formule propiziatorie. Quando la ricotta era pronta, un pezzo veniva posto su un “piatto buono” e offerto alla padrona che in genere lo restituiva con un pizzico di sale. Questo gesto non solo era sinonimo di riconoscenza, ma contribuiva al mantenimento delle pecore in buona salute. Ricordava, per di più, un’altra usanza. In antichità i lavoratori dipendenti ricevevano un salario, una razione di sale che per difficoltà di reperimento e importanza nella conservazione degli alimenti, veniva denominato oro bianco. 

Le zone d’altura, specialmente nell’area dei Monti Sibillini, costituivano lo scrigno di prodotti preziosi come funghi porcini e tartufi neri pregiati che attualmente possono essere degustati in località come Roccafluvione, dove ogni anno nel periodo invernale si tiene un festival interamente dedicato all’aromatico oro della montagna. 

Talvolta il pasto si chiudeva con un bicchierino di vino cotto, nel quale veniva affogata una mela rosa dei Sibillini, tanto decantata da Quinto Orazio Flacco nelle Satire. 

Nei giorni di festa le tavole venivano ingioiellate con ricette più elaborate e gustose che, tramandate meticolosamente di madre in figlia, sono giunte sino a noi con i loro sapori intensi e genuini. Vi sono piatti della tradizione locale che ogni famiglia declinava secondo i gusti e le proprie possibilità economiche, ed è per questo che oggi è possibile imbattersi in svariate sfumature del medesimo piatto. Per cogliere e degustare i sapori tipici di una domenica in famiglia, il menu – anche in base al periodo dell’anno – deve essere così composto: 

 

Antipasto: salumi e insaccati come lonza, prosciutto, ciauscolo, galantina, coppa di testa, salciccia fresca o stagionata accompagnati da formaggi come il Pecorino di Amandola, Comunanza, Force, Montemonaco e Montefortino. A Pasqua tutte queste delizie si possono degustare accanto a li pecù, piconi ascolani al cacio di pecora. Un buon antipasto deve comprendere anche il chichiripieno di Offida, una focaccia rustica molto piccante e la cacciannazë, una focaccia così denominata perché veniva sfornata prima del pane con lo scopo di verificare la temperatura del forno a legna. 

 

Primo: agnolotti o ravioli di ricotta e spinaci, cefelotte de magre (zitoni all’ascolana con olive verdi, tonno e polpa di pomodoro), timballo o cannelloni al forno. Questi piatti tradizionali ancora oggi vengono realizzati con una sottile pannella casereccia, ottenuta secondo un procedimento rimasto invariato nel corso del tempo. Sulla spianatora si rovescia un chilo di farina con la quale si forma una fontenella, dentro la quale si rompono dieci uova. Dopo aver impastato con le mani e aver formato una pallina lasciata riposare per una mezz’ora, si stende la pasta con lu stenneture (il mattarello) fino a ottenere una sfoglia tanto sottile da potervi guardare attraverso. 

 

Secondo: arrosto co lu pelotte (fetta di lardo allo spiedo che si lascia gocciolare sulla carne per insaporirla), costolette d’agnello alla griglia, spezzatino ‘ncip ‘nciap di Offida, braciole di castrato, piccioni ripieni o allo spiedo, pollastro alla cacciatora accompagnato dalle patate di Palmiano e dalla mestecanza (insalata mista). Quest’ultima, chiamata anche misticanza selvatica ascolana, un tempo era considerata una pietanza povera sebbene affatto semplice e scontata. Talvolta era il risultato di una diligente ricerca da parte delle donne che si avventuravano fino al limitare del bosco. Altre volte si trattava di un insieme di erbe raccolte nel corso della giornata dai pecorai. Tito Marini, cultore di storia e tradizioni locali, disse che una vera misticanza doveva essere composta da: barba dei Cappuccini, borragine, basilico, cicoria selvatica, cipolla fresca, crespino, finocchio selvatico, foglie di sedano e origano, isverde, lattacciolo, pimpinella, pisciacane, porcacchia, rucola, scaccialepre. E infine, come recita un detto locale: “Per ben condire una buona insalata verde occorrono sette P : un povero a raccoglierla, un paziente a pulirla, un prodigo a oliarla, un parco a inacidirla, un prudente a salarla, un pazzo a mescolarla e un poltrone a mangiarla”. 

 

Fritto misto all’ascolana: olive ripiene, cremini, zucchine, carciofi, mele, broccoli, gobbi, costolette d’agnello e fettine di vitello impanati con uova, farina, pangrattato e poi fritti in olio bollente. Le olive fritte all’ascolana, emblema gastronomico del territorio piceno, vantano una storia lunga e complessa. Alla base della ricetta vi è l’Oliva Tenera Ascolana DOP, nota già in epoca romana e nel corso dei secoli osannata da personaggi come Plinio, papa Sisto V, Gioacchino Rossini, Giuseppe Garibaldi e Giacomo Puccini. I primi ad operare la concia delle olive furono i monaci Benedettini Olivetani del Piceno, mentre gli iniziali esperimenti di farcitura vengono fatti risalire al XVII secolo quando, una volta denocciolati, questi frutti deliziosi venivano imbottiti di erbe. La ricetta attuale a base di carne, invece, è presumibilmente legata ad un raffinatissimo pranzo ottocentesco, sebbene per alcuni non sia altro che il risultato di un’ingegnosa operazione di recupero. Fragrante, polposa e di forma oblunga, ancora oggi la liva subisce un trattamento di deamarizzazione che di regola non deve avvenire oltre le 48 ore dalla raccolta. Prima di essere farcita, ovviamente va dissalata e denocciolata in maniera elicoidale. Di regola l’impasto del ripieno è costituito da carne di bovino maturo, carne di suino maturo, piccole quantità di carne di pollo o tacchino, formaggio stagionato grattugiato, olio extravergine e/o strutto, vino bianco secco, cipolla, carota, costa di sedano, noce moscata e sale. Dopo essere stata riempita, va passata nella farina, nell’uovo battuto ed infine nel pangrattato. A questo punto l’oliva è pronta per essere cotta nella frëssòra, la padella da frittura. 

 

Dolci: funghetti di Offida, realizzati con ingredienti semplici come farina, acqua, zucchero e anice; maritozzo di Quaresima con pinoli, uvetta e canditi; castagnole, frappe, cicerchiata e ravioli fritti ripieni di castagne o crema, tipici del periodo carnescialesco. A Natale il dolce più diffuso lungo il territorio piceno è indubbiamente lu frëštìnghë. Le sue origini sono molto antiche. Secondo alcuni studiosi, infatti, la ricetta era già nota a Piceni ed Etruschi. L’impasto, costituito da alica e succo di uva passita, veniva fatto cuocere in olle di creta. Il dolce, lodato da Plinio, era noto fra i Romani come panis picentinus. Col tempo gli ingredienti sono cambiati e il nome con cui oggi viene chiamato deriverebbe da frustum, ossia pezzetto, poiché la ricetta è caratterizzata da frammenti di fichi secchi, uva passita, cedro candito, mandorle tostate e noci con l’aggiunta di vino cotto, miele, zucchero e cannella. I più golosi amalgamano nell’impasto anche cacao e scaglie di cioccolato. Si dice che in passato si facesse colare nel composto un filo di sangue di maiale. 

 

Vini: Pecorino e Passerina Offida D.O.C.G., Rosso Piceno Superiore DOC, Falerio dei Colli Ascolani DOC.

 

Liquori: anisetta, distillato all’anice verde di Catignano. Il più noto è quello della Ditta Silvio Meletti che nel 2020 ha compiuto 150 anni.